La bambina sussurrò alla sua insegnante: “Ho paura di tornare a casa! Il mio patrigno mi fa sempre così”.

La mattina dopo, il titolo era ovunque: “Assistente locale accusata di abusi – Prove trovate sul prato”.

Lydia lesse il titolo tre volte prima di poter tirare un sospiro di sollievo. Era seduta al tavolo della cucina, seminuda, pronta a lavorare, con la televisione accesa in sottofondo, che canticchiava piano. La voce del giornalista era calma e distaccata: “Forniture da cucina”.

“Quindi, la diretta si conclude qui”.

La polizia aveva trovato diversi oggetti inquietanti nell’abitazione di Marlin Blake, un meccanico di 42 anni del sud-est di Portland. La vittima, una ragazza minorenne, era stata presa in custodia.

Lydia spense la TV. “In custodia”… la parola avrebbe dovuto significare sicurezza, ma aveva aiutato bambini in situazioni simili così tante volte che sapeva cosa l’aspettava: colloqui, visite mediche, assistenti sociali. E un trauma che non si era mai completamente risolto.

I corridoi della scuola erano pieni di sussurri. Gli studenti sussurravano il nome di Emily come se fosse un fantasma. Lydia avrebbe voluto dire loro di smetterla, per ricordare loro che Emily era una persona, non una storia. Invece, andò dritta nell’ufficio del preside Harper, dove l’aspettava il detective Dalton.

Il detective sembrava uscito dagli anni ’70: professionale, con occhi attenti ed esperti, la cui severità era attenuata dalla stanchezza.

“Signora Carter”, disse con un sorriso, “grazie mille per aver chiamato la polizia. Senza di lei, la ragazza non sarebbe viva oggi.”

Lydia si sentì sollevata e spaventata allo stesso tempo.

“Cosa ha trovato esattamente?”

Dalton esitò.

C’era un magazzino chiuso a chiave sul prato. Dentro c’erano dispositivi di sorveglianza e diari. Registravano cosa… cosa stava facendo. Ci sarebbe voluto del tempo per elaborare tutto.

Lydia chiuse gli occhi, cercando di scacciare la casa dalla sua memoria: azzurra e spaziosa, la cassetta della posta color caramello impolverata.

“Dov’è Emily adesso?”

“È con la sua famiglia affidataria. Al sicuro. Ma non parla molto.” Giochi di famiglia

Quella notte, Lydia non riusciva a toglierselo dalla testa. Si vedeva fuori dalla casa di Blake, ora circondata dal nastro giallo della polizia. Sembrava normale: il portico illuminato, gli stessi vasi di fiori sui gradini. Quel tipo di normalità era la cosa più spaventosa.

Due settimane dopo, Lydia ricevette una chiamata da Tara Nguyen, l’assistente sociale.

“Emily mi ha chiesto se poteva venirti a trovare”, disse Tara. “Oggigiorno si fida solo di poche persone.”

Quando Lydia arrivò alla sua casa adottiva, un modesto bungalow bianco a Beaverton, Emily era seduta sul divano, curva, abbracciando un bellissimo peluche. Il suo viso era pallido, ma i suoi occhi incontrarono quelli di Lydia: vulnerabili ma determinati.

“Hai detto…” sussurrò Emily.

“Sì”, rispose Lydia, sedendosi accanto a lei, “perché ti avevo promesso che saresti stata al sicuro.”

Emily annuì, con le lacrime che le rigavano il viso.

“Stavo cercando di dire… ho trovato qualcosa. Non riuscivo a ricordare tutto finché non mi hanno fatto visitare la stanza. Pensavo fosse colpa mia.

“Non è colpa tua”, disse Lydia con fermezza. “Niente di tutto questo è stata colpa tua.”

Per la prima volta, Emily si concesse di piangere, non in silenzio per la paura, ma per il sollievo che qualcuno finalmente la stesse ascoltando.

Fuori, la pioggia invernale picchiettava dolcemente contro le finestre. Nel piccolo soggiorno sedevano due persone: un’insegnante e una studentessa, entrambe sforzandosi di credere che i mostri potessero essere sconfitti, anche quelli che sembravano familiari.

Il caso Martin Blake era iniziato sei mesi dopo nella contea di Multnomah. A quel punto, la storia era scomparsa dai titoli dei giornali, sostituita da nuove tragedie. Ma per Emily e Lydia, niente era finito.

Il giorno dopo, Lydia fu interrogata. L’aula sembrava più fredda di quanto avesse immaginato: pareti di legno, luci al neon. Martin sedeva dalla parte della difesa, in un abito grigio, più snello di qualche anno prima, ma con un’espressione ancora furba. Quando i loro sguardi si incontrarono, Lydia sentì lo stesso sguardo sprezzante che aveva sentito quel giorno in classe.

Dana Ruiz, il pubblico ministero, stava facendo domande.

—Quando la studentessa parlò per la prima volta delle sue paure?

La voce di Lydia era calma.

—14 ottobre, dopo la lezione. Disse di avere paura di tornare a casa perché il suo padre premuroso “le faceva sempre questo”.

—Ha specificato cosa intendesse esattamente con “questo”?

—No. Ma, in base al suo stato emotivo, ho preso in considerazione un possibile caso di violenza.

La difesa ha cercato di…

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